Riflessi(oni) del passato – presente tra le Dolomiti

Riflessi(oni)

Tra le Dolomiti lo sguardo si volge in alto – su – come attratto da una forza irresistibile: pinnacoli, guglie, cattedrali di pietra e poi – giù – e: alberi, boschi, distese erbose dai colori cangianti. L’uomo contemporaneo associa questi luoghi al tempo libero, alle vacanze, alla distrazione. Eppure, con un piccolo sforzo di memoria ci si rende conto che non sempre è stato così. Questi luoghi hanno rappresentato per lungo tempo un habitat naturale dalle mille insidie e ha alimentato un focolaio di paure. Una profonda religiosità ha scandito lungo i secoli l’ardua esistenza delle genti di montagna che riuscivano, così, a sopportare le traversie e le ingiustizie. Il senso del mortale e i fenomeni che trascendono le leggi naturali erano percepiti come onnipresenti. Nell’animo popolare erano molto diffuse le precognizioni di morte: “i seniei”, ‘i segni premonitori’. I frutti della terra si strappavano a fatica e un repentino cambiamento di tempo, un temporale, potevano pregiudicare il paziente lavoro degli alpigiani. Alla sera, dopo una parca cena, la famiglia si riuniva nella stua, ‘la stanza di soggiorno’ e gli anziani erano loquaci testimoni della tradizione orale. Il mito, le leggende hanno abitato e animato questi luoghi forieri di suggestioni inesplicabili.

Tuttavia neanche le valli ladine sono state escluse da poderosi processi di sviluppo economico.

La specificità ladina è riuscita solo parzialmente a rendersi partecipe di questi poderosi cambiamenti sociali e culturali. Parimenti si sono affermate altre consuetudini e festeggiamenti, che sono andati di pari passo con un crescente benessere ed edonismo, come il giorno della mamma, del papà, degli innamorati, la benedizione dell’auto nuova o l’albero di Natale, riccamente addobbato con palline e ninnoli colorati. Nei salotti di molte case di montagna, durante il periodo natalizio, campeggia anche il presepe ligneo, attorniato da una miriade di regali. A volte la casetta del presepe è una radice d’albero opportunamente adattata allo scopo, dalle forme naturali più disparate.

Il credo senza limiti che si ripone nell’economia di mercato, plasmatrice dell’inarrestabile e acclamato progresso tecnologico, per definizione non si volge indietro al proprio passato avvertito come obsoleto. Tuttavia è quantomai opportuno che gli uomini contemporanei non prescindano da questo prezioso retaggio, che costituisce il patrimonio spirituale di un popolo.

L’uomo del presente deve, può, riannodarsi anche al passato per rischiarare la propria memoria storica e riuscire a sceverare le reali istanze del vivere quotidiano, tessendo così la trama del proprio futuro.

Ricordi.

La sensazione che si prova di fronte a una vecchia foto o incontrando un “vecchio” compagno di scuola, occupa sì lo spazio di un momento, ma fa anche da anello di congiunzione tra ciò che eravamo e ciò che siamo. È un vago rimpianto di luoghi, di persone, di tempi trascorsi. Non si vive di soli ricordi, si è soliti dire; eppure si ricorre a vari espedienti per tentare di immortalare il presente. Oggi ci ritroviamo immersi nell’era dell’autoritratto scattato con uno smartphone e poi condiviso nei siti di relazione sociale. È una moda che impazza. Ha assunto i connotati di una nuova forma di narcisismo di massa. Presi dall’ansia di fotografare e filmare si rischia, però, di mortificare momenti importanti della propria vita. Un’ossessione compulsiva di immortalare episodi (anche i più banali) rischia di alterare i ricordi e impedisce di assaporare il presente.

Abbiamo bisogno anche dei ricordi per nutrire adeguatamente il nostro presente, un attimo prima che venga archiviato dalla memoria.

Nostalgia.

Ci sono temperamenti più inclini alla nostalgia e altri più protesi alle novità: fanno di tutto per non voltarsi indietro. Eppure, a mio parere, l’uomo è un animale nostalgico, non si accontenta solo di fare man bassa del presente. In certi momenti della nostra vita abbiamo sentito (sentiamo) la nostalgia di casa, che richiama il tedesco “Heimweh” Questa parola pone l’accento sul moto di sofferenza che l’accompagna. In ladino è nchersciadum deriva dal verbo ncrëscer ‘increscere, rincrescere’, che costituisce un motivo di contrarietà, dispiacere. Le prime volte, forse, si è fatta sentire da piccoli quando siamo rimasti a dormire fuori casa da amici. Per quanto ci piacesse stare in compagnia dei nostri amici, ci assaliva la mancanza dei nostri cari e quel senso di sicurezza che si avverte nell’essere a casa, dove tutto è familiare e rassicurante. Oggi questo sentimento di attaccamento alle proprie radici deve fronteggiare la frenesia dei tempi moderni, che per sua natura è proiettata in avanti e ha una paura sconsiderata di incatenarsi al proprio passato. Non può ridursi a una catena arrugginita che ci tiene al guinzaglio, illudendoci di essere i paladini dei bei tempi andati. Ci sono usanze, abitudini che hanno fatto il loro tempo e allora lasciamole andare, altre invece possono continuare a corroborare adeguatamente il nostro presente. Alcune ricorrenze ci rammentano di quanto sia condiviso il bisogno del conforto dei ricordi, della memoria, per ricongiungerci alle persone care che ci hanno lasciate, ma che continuano a raccontarsi dentro di noi e sono parte di noi.

Nonna.

Mi tornano alla memoria frammenti di ricordi. Quand’ero ragazzo inforcavo la mia due ruote e andavo a trovare mia nonna. Una trama di rughe le solcavano il volto, incorniciato in un fazzoletto da testa che toglieva solo prima di coricarsi. Le mani grinzute, piccola, esile, umile. Era di poche pretese e da quei suoi occhi azzurri, a tratti velati di melanconia, sprizzava tutta la sua dignità; sostenuta, sempre, da una fede adamantina.

Propongo una breve chiacchierata in ladino gardenese, seguita dalla traduzione in italiano.

Hoi lava, me contes’a coche l fova zacan?

Zacan, cie ues’a che te dije, na drëta stënta fovel. N messova mëter al mond n grum de mutons y trueps muriva y se n jiva n paravis. Ël, l nëine, ruova a cësa stanch da sëira. N ne pudova pa ti dì nia. L fova bon scuté. Canche cujinove n poz de bales, tl’ega, ti la cumetovi for a ch’la mutans: «Maiede pa mé una na bala, canche ruva ch’i mutons ai pa for na drëta fam». Na drëta pecuniafovel, chël sei da te dì. L fova bën rie fé. L fova d’autri tëmps. Al didancuei iel dut vel’ d’auter. N se fej dut ntëur plu saurì. Y śën – ne sé co dì – ne muesse fé nia, posse jì a me tò la pension tla posta. Ie son rica.”

“Ehi nonna, mi racconti com’era un tempo?

Un tempo, cosa vuoi che ti dica, c’era la miseria. Bisognava mettere al mondo tanti bambini e molti morivano e se ne andavano in paradiso. Lui, il nonno, arrivava a casa stanco la sera. Non si poteva dirgli niente. Era bene tacere. Quando cucinavo una pentola di canederli, nell’acqua, dicevo sempre alle bambine: «Mi raccomando mangiate solo un canederlo, quando arrivano i ragazzi sono sempre affamati». Si viveva nella miseria, questo ti posso dire. Era difficile fare. Erano altri tempi. Oggigiorno è tutta un’altra cosa. Tutto è più semplice. E ora – non so come dire – non devo fare niente, posso andare alla posta a prendermi la pensione. Io sono ricca.

Nonna nacque nel 1904 e morì nel 1988. In tarda età le venne assegnata una pensione sociale. Le “ricchezze monetarie” della nonna si aggiravano intorno alle 150.000 Lire percepite ogni due mesi (77,47 € attuali). L’affetto che nutro per questa vecchietta non si è mai sopito e si rinverdisce ogni qualvolta riaffiora, com’è ora, dalla memoria.”

Costumanze.

La montagna ha costitituito per lungo tempo una sorta di tabù invalicabile e un limite tangibile. In tempi andati la vita tra le montagne era scandita da una simbiosi con la natura e dall’elaborazione di un’accorta cultura materiale. Si seguiva il ritmo delle stagioni, in un severo e faticoso, ma inalienabile equilibrio tra l’uomo e l’ambiente.

Le cerimonie religiose, le celebrazioni laiche e le sagre paesane erano le sole occasioni per avvicendare il ritmo monotono e rigoroso della vita di tutti i giorni degli alpigiani ladini. Nella coscienza popolare le pratiche rituali e le credenze più diffuse venivano regolate dal meccanismo dei riti di passaggio. Il primo di questi era la nascita che sanciva il passaggio dalla morte alla vita, dal buio alla luce. Le usanze allietavano e caratterizzavano gli avvenimenti più importanti delle comunità rurali e paesane: il battesimo, che segna l’ingresso del neonato nella vita cristiana, i primi approcci amorosi, le nozze e le festività religiose.

Le consuetudini un tempo erano strettamente connesse all’evocazione di spiriti bonari o a riti propiziatori, per un buon raccolto o di buon auspicio per la fecondità. Si mirava a scacciare gli spiriti nefasti per propiziare la fertilità. Il rito si lega a un generico bisogno – un’utilità ancestrale – di trascendente e di divino che ciascuno cova dentro di sé. Negli atavici simbolismi agropastorali, nelle espressioni rituali – marcatamente condizionate e alterate dal processo di evangelizzazione – persiste un patrimonio di religiosità che accomuna le genti alpine. A ridosso del ventesimo secolo inizia a temperarsi la credenza degli effetti apotropaici ed esorcizzanti di determinate pratiche rituali e, dopo la seconda guerra mondiale, inizia un processo di radicale sovvertimento delle usanze invalse da tempo immemore. Molte consuetudini sono state obliterate dal tempo. Altri usi e tradizioni locali conservano il loro aspetto più schietto e sono vissuti con partecipazione nella comunità valliva o nella ristretta cerchia familiare. Diverse tradizioni sono andate scemando con l’avvento della modernità o hanno assunto, in parte, connotazioni artificiose in seguito al ritmo incalzante di un progresso forzoso e non di rado impermeabile a tradizioni ormai viete. Le usanze in tal modo cadono nella memoria di un tempo che fu, a volte rinverdite in maniera effimera in occasione di eventi folcloristici, a volte rilette con una punta di nostalgia.

Ora.

Il cammino dell’uomo è sempre stato costellato da interrogativi riguardo all’essenza della vita e al mistero della morte. Le diverse epoche storiche hanno concesso o alimentato risposte che parevano congrue o opportune in un dato momento storico. Giudicare con il senno di poi certo è agevole, ma fare i conti con il presente non di rado ci coglie alla sprovvista. Dopo il secondo conflitto mondiale, come già enunciato, usanze, credenze e superstizioni persero d’incisività e iniziarono a cadere nel dimenticatoio. Dal secolare isolamento i valligiani dolomitici ormai erano giunti a doversi confrontare con l’eteronomìa.

D’altra parte il confronto, a volte scontro, con altre culture e un crescente benessere genera altre ubbie e credenze magari più materiabili e nello stesso tempo effimere, come l’edonismo e il materialismo più sfrenato ed esibizionista. Una società meramente meccanicistica e tecnologica, che tende ad appropriarsi anche delle parti più intime e recondite dell’animo umano, alimenta insicurezza e disagi esistenziali. Il turismo nelle valli ladine ha in parte radicalmente alterato lo scenario dolomitico naturale e i rapport interpersonali. Siti un tempo dediti alla pastorizia e alla coltivazione di campi ad alta quota, sono divenuti centri all’avanguardia nel settore turistico. L’avvento dell’industria turistica e degli sport invernali ha portato un benessere economico e materiale neppure lontanamente ipotizzabile agli esordi. Ne consegue tuttavia che i valori tradizionali sono più che mai esposti alla frenesia del nuovo e rischiano di essere spazzati via.

L’uomo del presente può riannodarsi anche al passato – per rischiarare la propria memoria storica – e riuscire a sceverare le reali istanze del vivere quotidiano, tessendo così la trama del proprio futuro che è adesso; dopo potrebbe già essere tardi.

Articolo di Marco Forni

Marco Forni vive e lavora a Selva Gardena tra le Dolomiti. Di mestiere si occupa di parole: dette, raccontate, scritte e ascoltate; parole dimenticate o entrate nell’uso. Ha scritto diversi saggi di carattere sociolinguistico, storico-etnografico e lessicografico. È autore del Wörterbuch Deutsch – Grödner-Ladinisch. Vocabuler Tudësch – Ladin de Gherdëina (Istitut Ladin Micurà de Rü, 2002) e del Dizionario italiano – ladino gardenese. Dizioner talian – ladin de Gherdëina (Istitut Ladin Micurà de Rü, 2013). Per lo stesso Istituto, dove lavora, ha pubblicato tra l’altro Ladinische Einblicke. Erzählte Vergangenheit, erlebte Gegenwart in den ladinischen Dolomitentälern (2005), Momenti di vita. Passato narrato presente vissuto nelle valli ladino-dolomitiche (2007). Nel 2013 è uscito il suo primo romanzo Una parola negli occhi per i tipi Edizioni Forme Libere. Ha scritto un libro a quattro mani sotto forma di corrispondenza con Nicola Dal Falco: Cuntedes de paroles. Storie di parole (2016). Nel 2019 è uscita l’opera grammaticale: Gramatica ladin gherdëina e la Grammatica Interattiva Ladina Gardenese (G.I.L.G.). Tiene lezioni su invito presso l’Università di Roma “La Sapienza” e collabora con il portale Treccani – sezione lingua italiana.

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